“Il segno del comando” di Giuseppe D’Agata, romanzo del 1987 derivato dall’omonimo e acclamato sceneggiato televisivo RAI del 1971, si presenta come un oggetto letterario singolare. Non è solo un thriller esoterico ante litteram, né una semplice trasposizione di un successo televisivo. È, piuttosto, un palinsesto narrativo in cui si intrecciano generi, epoche e suggestioni, offrendo al lettore un’esperienza che trascende la pura suspense.
D’Agata, già sceneggiatore dello sceneggiato (diretto da Daniele D’Anza e interpretato da Ugo Pagliai e Carla Gravina), dimostra una notevole abilità nel trasporre in forma romanzesca l’atmosfera sospesa, onirica e a tratti gotica che aveva caratterizzato la storia della serie TV. La Roma del 1971, in cui si muove il professor Lancelot Edward Forster, diventa uno spazio ambiguo, un labirinto in cui il confine tra realtà e allucinazione, tra passato e presente, si fa labile.
Il pretesto narrativo – la conferenza di Forster su un diario inedito di Lord Byron – è un chiaro omaggio alla tradizione del romanzo gotico e, al tempo stesso, un’astuta mossa per inserire la vicenda in un contesto storico e culturale ben definito. La figura di Byron, poeta romantico per eccellenza, incarnazione del genio tormentato e ribelle, aleggia sull’intera narrazione, aggiungendo un ulteriore strato di mistero e suggestione. La citazione del diario del poeta: «21 aprile 1817, notte, ore 11. Esperienza indimenticabile, luogo meraviglioso, piazza con rudere di tempio romano, chiesa rinascimentale, fontana con delfini, messaggero di pietra, musica celestiale, tenebrose presenze». è evocativa. L’indagine di Forster, innescata da una lettera di un pittore morto un secolo prima, si trasforma rapidamente in una discesa negli inferi della psiche, in un viaggio iniziatico attraverso i meandri di una Roma esoterica, popolata da fantasmi, sedute spiritiche, simboli arcani. La figura di Lucia, enigmatica e sfuggente, incarna l’archetipo della femme fatale, guida e al tempo stesso tentatrice del protagonista.
D’Agata, pur attingendo a piene mani al repertorio del fantastico, non cede mai alla tentazione del sensazionalismo gratuito. La sua scrittura, pur nella sua semplicità, è precisa, evocativa, capace di creare un’atmosfera di costante inquietudine. Il ritmo narrativo, serrato e incalzante, tiene il lettore incollato alle pagine, trascinandolo in un vortice di eventi inspiegabili e colpi di scena.
“Il segno del comando” può essere letto come un precursore del thriller storico-esoterico, un genere che avrebbe conosciuto grande fortuna negli anni successivi. Ma, al di là delle etichette, il romanzo di D’Agata rimane un’opera originale e affascinante, che ci invita a riflettere sul potere dell’inconscio, sulla forza del passato, sulla natura ambigua della realtà. Un libro che, come la Roma che descrive, nasconde dietro la sua facciata luminosa un’anima oscura e misteriosa, tutta da scoprire. Un’opera che risuona profondamente con la sensibilità contemporanea, sempre più attratta dal mistero, dall’occulto, dalla ricerca di un senso oltre la superficie delle cose. Un romanzo che, pur nella sua apparente semplicità, si rivela stratificato e ricco di significati, offrendo al lettore una molteplicità di piani di lettura e di interpretazione.