Kapo di Dominique Gaussen: il volto ambiguo della sopravvivenza

Redazione
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La letteratura sui campi di concentramento ha spesso delineato un confine netto tra vittime e carnefici, tra oppressi e oppressori. Kapo di Dominique Gaussen, pubblicato nel 1969, si muove invece in un territorio più ambiguo, esplorando le zone d’ombra della coscienza umana in condizioni di estrema brutalità. Il romanzo si addentra in una delle figure più controverse dell’universo concentrazionario: quella dei kapò, prigionieri che, per garantirsi una relativa sopravvivenza, accettavano di collaborare con i loro carcerieri, esercitando potere sui compagni di prigionia.

Gaussen costruisce un’opera che è al tempo stesso una discesa nell’abisso dell’animo umano e una riflessione sulle dinamiche del dominio e della complicità. Il protagonista, un deportato che accetta di diventare kapò, non è un personaggio facilmente classificabile. Non è un eroe, né un puro carnefice: è un uomo che si muove tra il desiderio di restare vivo e il peso insostenibile delle proprie azioni. La sua voce, cruda e disincantata, ci accompagna attraverso il percorso di graduale spoliazione morale che lo conduce a compiere atti che mai avrebbe immaginato prima della deportazione.

Uno degli aspetti più riusciti del romanzo è proprio la capacità dell’autore di raccontare senza retorica il processo di corruzione che investe il protagonista. Non vi è alcuna idealizzazione del prigioniero resistente, né una semplice condanna del collaborazionista. Gaussen preferisce mostrare l’orrore attraverso le scelte quotidiane, attraverso il logoramento della volontà e il crollo delle certezze morali. La domanda che emerge con forza è inquietante: fino a che punto la sopravvivenza giustifica l’adesione a un sistema disumano?

L’ambientazione del romanzo è resa con una precisione spietata. Le baracche, le latrine, i turni di lavoro massacranti, i sadismi delle SS e quelli dei kapò sono descritti con una prosa asciutta, essenziale, che evita il patetismo ma non risparmia nulla della realtà concentrazionaria. Il campo di concentramento non è solo un luogo fisico, ma diventa uno spazio mentale in cui i concetti di bene e male si confondono, dove la lotta per il cibo e per un posto al riparo dal freddo può trasformare chiunque in un potenziale aguzzino.

Gaussen evita accuratamente ogni semplificazione psicologica. Il suo kapò non è un mostro, ma nemmeno un uomo redimibile: è un individuo che, messo di fronte alla scelta tra la propria vita e quella degli altri, cede, accetta di obbedire, e poi si abitua. Il vero orrore del romanzo sta proprio nella banalità di questo processo, nella normalizzazione del male. Gaussen mostra come il sistema concentrazionario fosse costruito per spezzare ogni forma di solidarietà tra i prigionieri, per trasformarli in ingranaggi di una macchina più grande.

La scrittura, priva di orpelli, contribuisce a rendere il racconto ancora più lacerante. Non vi sono grandi discorsi morali, né riflessioni filosofiche esplicite: Kapo lascia parlare i fatti, le azioni, i silenzi carichi di significato. Il protagonista non cerca giustificazioni, e il romanzo non offre facili assoluzioni. È proprio questa freddezza analitica a rendere la lettura così disturbante e, al tempo stesso, necessaria.

Nel panorama della letteratura sulla Shoah, Kapo si distingue per il suo coraggio nell’affrontare un aspetto scomodo della memoria: quello della collaborazione forzata, delle zone grigie in cui la vittima e l’oppressore si confondono. Non è un libro che cerca di suscitare compassione, ma un’opera che obbliga il lettore a confrontarsi con domande irrisolvibili. È un romanzo che scuote, che interroga, che lascia un segno profondo e inquietante. Perché la storia non è fatta solo di eroi e carnefici, ma anche di coloro che, messi di fronte all’annientamento, hanno scelto di diventare qualcos’altro pur di restare in vita.

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