L’Impietratrice di Vittorio Imbriani: un’anticipazione dell’ucronia moderna

Redazione
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Nel vasto panorama della letteratura italiana dell’Ottocento, spesso dominato da intenti pedagogici, sperimentazioni romantiche e naturalistiche, spicca una figura di geniale eccentricità: Vittorio Imbriani. Scrittore, critico e intellettuale poliedrico, Imbriani si distingue per il suo stile arguto, per una vena satirica tagliente e per un’incredibile capacità di giocare con la lingua e i generi letterari. Uno dei suoi lavori più singolari è senza dubbio L’Impietratrice (1875), un racconto che, intrecciando storia, fantasia e ironia, precorre generi narrativi oggi celebrati, come l’ucronia e la fantascienza storica.

Un Cesare Borgia alternativo: tra avventura e fantasia

L’idea centrale di L’Impietratrice si fonda su un suggestivo what if storico: cosa sarebbe accaduto se Cesare Borgia, il Duca Valentino, fosse sopravvissuto alla sua rovina politica ed esistenziale? Imbriani immagina un rocambolesco epilogo per il celebre condottiero, il quale, anziché soccombere alle sventure europee, riesce a fuggire nel Nuovo Mondo. Qui si innamora di una principessa azteca dotata di un potere straordinario e inquietante: la capacità di pietrificare chiunque incroci il suo sguardo. Da questa premessa, l’autore tesse una trama che oscilla tra la fiaba esotica e l’avventura rocambolesca, arricchita da una scrittura colta e irriverente.

Il protagonista, Cesare Borgia, non perde il suo istinto strategico e la sua sete di potere: egli medita la vendetta contro papa Giulio II, che lo ha privato delle sue ambizioni. Ma il destino gioca con lui, portando la storia verso un epilogo tanto surreale quanto ironico. La principessa azteca, lungi dall’essere una semplice comprimaria, si configura come una figura ambivalente: femme fatale e creatura mitologica, vittima e carnefice, simbolo di un potere arcano che sfugge al controllo della razionalità occidentale.

Uno sperimentalismo linguistico e narrativo senza freni

Ciò che rende L’Impietratrice un’opera straordinaria non è soltanto la sua trama inusuale, ma anche lo stile di Imbriani, un vero e proprio funambolo della parola. Il suo linguaggio è un impasto di registri differenti: l’erudizione si mescola alla parodia, l’ironia alla citazione colta, il gioco verbale alla destrutturazione narrativa.

Imbriani non si accontenta di raccontare una storia alternativa, ma ne sovverte i codici, utilizzando un lessico a tratti arcaico, a tratti gergale, con una fluidità sorprendente. La sua prosa è un’avventurosa cavalcata tra parole desuete, giochi etimologici e spericolate acrobazie stilistiche, in un esperimento letterario che anticipa in parte le innovazioni linguistiche di autori del Novecento come Carlo Emilio Gadda o Giorgio Manganelli.

L’Impietratrice e il genere ucronico: un precursore dimenticato?

Uno degli aspetti più affascinanti di L’Impietratrice è il suo carattere di precursore della letteratura ucronica, un genere che solo nel XX secolo avrebbe trovato piena codificazione. L’ucronia – ovvero la narrazione di realtà alternative basate su deviazioni da eventi storici reali – è oggi un genere fiorente, grazie a opere come The Man in the High Castle (1962) di Philip K. Dick, Il complotto contro l’America (2004) di Philip Roth o 22.11.63 (2011) di Stephen King.

Eppure, già nel 1875, Imbriani ne aveva intuito le potenzialità, creando un intreccio che ribalta la storia ufficiale e la trasporta in una dimensione fantastica, ma con un raffinato sottotesto critico. Attraverso la vicenda di Cesare Borgia e della sua fuga nel Nuovo Mondo, l’autore non solo diverte il lettore con un’avventura surreale, ma getta anche uno sguardo beffardo sulla politica e sulle ambizioni del potere, mostrando come il destino possa giocare con la sorte dei grandi uomini e come la storia possa essere riplasmata in modi inaspettati.

Una riscoperta necessaria

Nonostante la sua genialità e la sua modernità, L’Impietratrice è rimasta a lungo un’opera poco conosciuta, oscurata dalla produzione più canonica della letteratura italiana. Solo negli ultimi anni la critica ha iniziato a riscoprire l’importanza di Vittorio Imbriani, riconoscendolo come una delle voci più originali dell’Ottocento. Studiosi come Giuliano Cenati ne hanno sottolineato la grandezza, evidenziando come l’autore sia stato un pioniere di sperimentazioni linguistiche e narrative che avrebbero trovato piena espressione solo nel Novecento.

A testimoniarlo sono anche i giudizi di autori contemporanei, da Giorgio Manganelli, che ha definito la sua prosa «avventurosa, mobile, aristocratica e bastarda», a Michele Mari, il quale ha colto l’essenza dissacrante della sua scrittura: «Imbriani distrugge la società del suo tempo a colpi di giochi linguistici, a riprova che in letteratura, molte volte, non c’è niente di più serio del divertimento».

L’Impietratrice di Vittorio Imbriani è un’opera che merita di essere riscoperta, non solo per il suo valore letterario, ma anche per la sua capacità di anticipare tematiche e strutture narrative che solo oggi vediamo pienamente sviluppate. Tra satira, storia alternativa e sperimentazione linguistica, il racconto si colloca come un unicum nella letteratura italiana dell’Ottocento, dimostrando che l’irriverente genialità di Imbriani aveva saputo guardare molto oltre il proprio tempo.

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