Haruki Murakami scrive romanzi che sono labirinti: paesaggi in cui il reale si sgretola senza mai crollare del tutto, territori in cui la quotidianità si deforma attraverso fessure impercettibili, trascinando il lettore in un viaggio che è al tempo stesso intimo e surreale. Nel segno della pecora, pubblicato nel 1982, è forse l’opera che segna in modo definitivo la nascita del suo inconfondibile universo narrativo, sospeso tra il noir esistenziale e la dissoluzione della logica.
Il protagonista, anonimo come spesso accade nei romanzi di Murakami, è un pubblicitario di Tokyo la cui esistenza scorre nell’inconsistenza di una routine priva di senso. La sua vita si muove tra separazioni senza pathos, incontri occasionali e un lavoro che svolge senza entusiasmo. Tutto cambia quando un uomo misterioso lo incarica di ritrovare una pecora particolare, un animale che sembra possedere un potere insondabile e che, in qualche modo, si collega ai destini della politica, dell’economia e delle forze più occulte della società giapponese. Inizia così un viaggio che porta il protagonista dalle strade asettiche di Tokyo agli spazi sconfinati dell’Hokkaidō, tra alberghi semi-abbandonati, personaggi enigmatici e territori in cui la realtà sembra obbedire a regole diverse.
Murakami costruisce la sua narrazione come un meccanismo ipnotico, in cui la linearità è solo apparente. Il romanzo si muove tra digressioni, momenti di introspezione e frammenti di vita quotidiana che, nella loro banalità, assumono un significato straniante. Gli elementi tipici della sua poetica emergono con forza: il protagonista apatico ma sensibile, il mistero che si insinua senza mai rivelarsi del tutto, la presenza di figure femminili sfuggenti e magnetiche, il dialogo continuo tra il visibile e l’invisibile.
Ciò che rende Nel segno della pecora un’opera affascinante è la sua capacità di sfidare il lettore senza mai offrire soluzioni definitive. La pecora diventa un simbolo sfuggente, un’entità che sembra racchiudere il segreto di un potere inafferrabile, eppure il suo significato ultimo resta indefinito, come se fosse il lettore stesso a dover riempire gli spazi vuoti della narrazione. Murakami gioca con i codici del romanzo investigativo, ma non per condurre a una rivelazione finale: l’indagine non serve a scoprire una verità nascosta, ma a svelare l’assenza stessa di un significato univoco nella realtà.
La scrittura di Murakami è essenziale, precisa, capace di creare un’atmosfera di sospensione che avvolge ogni scena. Le descrizioni degli spazi, dal minimalismo degli ambienti urbani alla vastità selvaggia dell’Hokkaidō, contribuiscono a costruire un senso di spaesamento, come se ogni luogo fosse solo un riflesso imperfetto di qualcosa di più profondo. I dialoghi, spesso rarefatti, amplificano la sensazione di trovarsi in un mondo in cui le parole non servono a chiarire, ma a rendere ancora più opaca la comprensione.
In Nel segno della pecora si intravede già il Murakami che in seguito avrebbe scritto capolavori come L’uccello che girava le viti del mondo e Kafka sulla spiaggia: il romanzo è un viaggio iniziatico che non conduce a una rivelazione, ma a una consapevolezza diversa, più sottile. Il protagonista parte per ritrovare una pecora e finisce per smarrire sé stesso, o forse per riscoprire un’idea di sé che fino a quel momento gli era sfuggita.
Questa è la grande forza del romanzo: la sua capacità di trasportare il lettore in un universo in cui ogni elemento, per quanto assurdo o surreale, possiede una sua logica interna, e in cui il confine tra la realtà e il sogno si dissolve fino a diventare indistinguibile. Nel segno della pecora è un’opera che, come tutte quelle di Murakami, non si limita a raccontare una storia, ma apre un varco, un passaggio verso una dimensione in cui ogni certezza si dissolve e la vita appare per quello che è realmente: un mistero che nessuna indagine potrà mai chiarire del tutto.